Miriam Sabot, è una fighter professionista italiana che vive e si allena ormai da anni in Tailandia, ultimamente, con la l’arrivo a livello internazionale del LETHWEI, la kickboxing birmana, molti fighter da tutto il mondo hanno avuto la possibilità di cimentarsi in questa antica disciplina asiatica, Miriam è così diventata la prima fighter italiana a combattere di LETHWEI il 4 novembre scorso.
Ecco il suo racconto per gli amici di MMA ARENA:
Sin da quando ho iniziato con questo sport, nel lontano 2006, mai avrei pensato che sarei finita in Birmania a disputare un match di Lethwei. La prima volta che ne sentii parlare fu nel 2014 quando mi trasferii in Thailandia per lavoro e il mio caro amico Luca me ne accennò e mi fece vedere un video su YouTube. “Particolarmente violento e insensato” pensai ed è quello che gli dissi. Non credevo proprio che salire sul ring in quella disciplina sarebbe poi stato parte del mio percorso anni a venire.
È successo domenica scorsa, a Yangon, contro Veronika, l’attuale ragazza più forte della categoria. Presente all’evento anche l’ambasciatrice italiana Alessandra Schiavo.
Non potevo fare una figuraccia!
Propostomi inizialmente come un match di Muay thai kardchuak (con le mani cordate anziché con i guantoni) che accettai più che altro per mia curiosità, dopo una settimana era magicamente diventato un match di Lethwei full rules. Fino al giorno del peso non sapevo neppure quanti round dovessi disputare perché neppure i Promoter thai che avevo come contatto, lo sapevano. Nel dubbio le ultime due settimane di allenamento prima del match, mi sono allenata per fare 5 round da 3 minuti.
Ovviamente avevo visto i video della mia avversaria ed ero un po’ rincuorata dal fatto che due delle mie avversarie thai erano già salite sul ring contro di lei. Attraverso i video dei loro match e conoscendo almeno le fighters thailandesi, ho avuto una più realistica percezione di chi avrei dovuto affrontare. I miei dubbi erano riversati prettamente sulle mani senza guantoni e su come avrei reagito a prendere quei colpi.
Sul ring posso dire che il fiato era dunque l’ultimo dei miei pensieri. Tutti ci tenevano a ricordarmi di stare attenta alle testate, colpi ammessi nella Lethwei, chiamata anche l’arte marziale dei 9 limbs proprio per questa tecnica in più (la Muay thai è invece l’arte degli 8 limbs). Dai video che avevo studiato non mi sembrava che Veronika ne fosse una forte appassionata: ne aveva messe un paio contro Sawsing Sor Sopit (attualmente la migliore thai fighter in circolazione nei 57 kg con cui ho avuto il piacere di confrontarmi durante un torneo a 4 ad agosto), ma non di più.
Mi sono allenata duramente, cercando (per quanto questo sia possibile in una palestra di Muay thai) di lavorare molto sulla boxe. Purtroppo ho potuto affinare qualcosina in più solo negli ultimi 4 giorni prima della partenza visto che il mio coach, il triestino Emmanuele Corti (titolare insieme alla moglie Mam Supannee della Sitjemam Muay thai gym, camp che mi sponsorizza), era appena tornato dalla Corea in cui è stato per insegnare la disciplina.
In ogni caso tutto era pronto e il giorno del match è presto che arrivato. Mi sentivo riposata ed in forma. E carica. Volevo davvero fare un bel match! Sapevo cosa avrei dovuto fare e spesso e volentieri, nei momenti di concentrazione a ridosso dell’entrata sul ring, ma anche il giorno prima e la mattina stessa, ad ogni volta che ne avevo occasione, mi ripetevo dentro la testa le azioni che avrei voluto e potuto fare per portarmi a casa una vittoria.
Lo stadio a Yangon era particolarmente chiassoso. C’era un’ orchestrina dal vivo che suona la canzoncina birmana di sottofondo ai match: non mi aveva tanto stupito tale presenza (visto che c’è anche nei match di Muay thai), quanto più il volume assurdo che tenevano. Se fossi stata spettatrice, dopo un paio di match sarei dovuta andarmene per il mal di testa.
Sono rimasta molto contenta e grata del fatto che gli spogliatoi fossero in un’area lontana dal ring e con addirittura l’aria condizionata. L’intera organizzazione non ci ha fatto mancare nulla, ci ha fornito magliette e shorts, il secchiello con le garze e il tape per le mani, acqua e cibo, etc.
Dovrei scrivere un capitolo intero sui vari personaggi che ho incontrato in questa avventura birmana. Ma mi limiterò a menzionare il signore che ha voluto a tutti i costi starmi all’angolo insieme a Mam (che si è gentilmente prestata ad accompagnarmi). Gli ho chiesto il nome tre volte e per tre volte non l’ho proprio capito. Aveva la mascella o i denti interni fratturati in passato, quindi diciamo che il sorriso non era il suo forte e non parlava neppure troppo bene. Ma è stato colui insignito del compito di farmi le mani. Per regola della promozione e per un fattore di trasparenza, le mani andavano fatte nella stessa stanza del proprio avversario, cosicché si potesse guardare se andassero bene oppure no. Quando io mi sono seduta di fronte a questo vecchietto, anche Veronika era seduta lì accanto con uno del suo team intento a piegare le garze a modo, per poi iniziare il bendaggio. Mentre lei era a metà della sua prima mano, il vecchietto (che parlava anche un po’ di thai) mi aveva già chiuso la prima mano. E mi chiedeva se fosse ok. “E lo chiedi a me!? “ pensai. È la prima volta che combatto senza guanti!
Guardavo Veronika che aveva delle mani impeccabili, con doppio strato di garza sulle nocche e ben chiuse con il tape sul polso. Visto che il vecchietto mi aveva detto anche “mai koi” che in thai significa “mai fatto”, mi era balenato il dubbio che anche per lui fosse la prima volta. E quindi mi sono messa a chiedere a tutti, mia avversaria compresa, se le mani fatte così andassero bene. Tutti a dirmi che era ok, e a chiedermi cosa ne pensassi io! Alla fine sono riuscita a farmi mettere uno strato aggiuntivo di garza, se non altro come Veronika. Entrambe abbiamo firmato le mani all’altra prima di uscire dalla stanza.
Il mio match era l’ultimo della serata, ahimè. È sempre pesante dover aspettare. Però avevo il mio da fare a tenere a bada questo simpatico ma insistente vecchietto che mi stava addosso, dicendomi di sedermi o facendomi massaggi alle gambe e braccia. Poi gli hanno dato il grande compito di insegnarmi quella strana danza che fanno prima del match di Lethwei, il corrispondente della wai kru per i match di Muay thai. Sembrava tenerci un sacco, questo vecchietto! Infatti, una volta che dovevo finalmente fare la mia entrata, pretendeva che facessi il balletto anche quando non era necessario.
Ma alla fine, ripeto: è stato carino. Ho scoperto che era un coach di Lethwei e, mentre mi scaldavo, mi ha anche fatto fare qualche combinazione con testate comprese.
Sono salita sul ring, sempre passando sotto le corde come in Thailandia, con lui solo presente sul ring. Mam era all’angolo pronta per urlare e darmi direttive.
La campana segna l’inizio del primo round e io e Veronika ci tocchiamo le mani in segno di rispetto. Io ero tranquillissima e mi ero detta che il primo round sarebbe stato un round altrettanto tranquillo perché necessitavo di prendere confidenza e capire come funzionava. Peccato che la mia avversaria non fosse della stessa idea e sia partita all’attacco come una furia. Pugni e testate a raffica per lei in quei primi 3 minuti in cui io davvero avevo capito ben poco, ma assaggiato già benissimo il sapore del Lethwei.
Alla fine del round, arrivata al mio angolo, ammetto di aver pensato”ma perché diavolo sono qui!?”, ma poi il pensiero è stato spazzato via dalla realtà del momento, dal ghiaccio che mi veniva versato addosso e dai consigli di Mam e cornermen.
Il secondo round inizia bene per me che metto al tappeto Veronika con un destro che proprio la spegne e la fa cadere sulle sue gambe. Ma lei è una tosta e si rialza non facendo arrivare il conteggio dell’arbitro neppure a 6 e distruggendo così le mie speranze di chiudere lì a mio favore quella battaglia.
Continuiamo a scambiarci dei bei colpi, lei sfruttando il fatto di essere più bassa riusciva a sferrarmi dei buoni colpi allo stomaco e cercava di colpirmi con le testate. Io la colpivo bene con il gancio sinistro in uscita ma poche volte riuscivo ad aggiungerci un altro colpo ben a segno perché mi trovavo sempre fuori misura. Nel clinch avevo capito come bloccarle la testa e sentivo di essere nettamente superiore: le abbassavo la testa ma anche in questo caso non riuscivo a concludere l’azione con una bella ginocchiata in faccia, che sembravano essere i colpi che le entravano più facilmente, insieme ai calci frontali (ne ha presi anche uno alla gola e uno in faccia). Ovviamente non mi sono dimenticata di usare le gomitate e, in un paio di occasioni, ho provato pure a ricambiare la mia agguerrita avversaria con le stesse testate.
Nel terzo round mi sentivo ormai molto più sicura. Tant’è che iniziavo quasi a divertirmi. All’angolo mi era stata detta una cosa che non mi era mai capitato di sentire, ovvero di mollare se per me era troppo. Onestamente non mi era piaciuto sentirmi dire così sul momento (anche se penso fosse stato detto perché nessuno aveva mai affrontato dal vivo un match di Lethwei e ovviamente c’era apprensione e preoccupazione) ma probabilmente è stato questo a farmi realizzare che quello non era Muay thai, che ero libera di muovermi come mi pareva e che indietreggiare non era un demerito come nell’arte del regno del Siam. In più ho pensato anche che non essendoci punteggio, non c’era necessità di fare tanto volume di colpi come ho cercato di fare nei primi due round: “ora la aspetto e gioco di rimessa, e vediamo che succede!”.
Beh, è successo che il terzo round è passato liscio come l’olio e il quarto anche, dove a 30 secondi dalla fine si vede proprio che aspetto soltanto che suoni la campana, mentre evito i suoi attacchi e rispondo proprio se sono a giusta distanza. Soluzione più sicura per arrivare a fine del match, essendo un incontro sulle 4 riprese da 3 minuti.
Come sempre ci abbracciamo alla fine del match: sul ring è guerra ma fuori, sia prima che dopo, c’è rispetto e spesso amicizia. In fin dei conti perché mai dovremmo essere scorbutiche l’una con l’altra quando neppure ci conosciamo?! In più detestare costa fatica e le energie ci servono di più sul ring!
L’esito è un pari, l’arbitro ci alza le mani e ci prendiamo i nostri applausi. Il vecchietto mi dice e mi costringe nuovamente a fare il balletto… e viene fuori una parodia che i miei compagni di palestra useranno per prendermi in giro per almeno un paio di mesi!
Veniamo premiate con la medaglia dall’ambasciatrice in persona: nonostante in Italia non molti sanno chi io sia o magari, pur conoscendomi, non mi danno molto credito, mi sono sentita fiera e orgogliosa di esser stata la prima fighter del mio paese a combattere in questa disciplina. Sorrido pure a chiamarla così, perché di regole c’è ne sono ben poche.
Riguardo le mie personali considerazioni, a me piace fare Muay thai, ne sono davvero profondamente appassionata. E dopo tanti anni ritengo che ho ancora da imparare un milione di cose su questa arte marziale. Però ho avuto la riprova che quello che ho appreso finora mi permette di competere anche in altre discipline e di riuscire comunque a combattere decentemente.
Dopo questa esperienza fuori dal comune, porto a casa un po’ di sana soddisfazione, insieme ad un bell’occhio nero. Ringrazio tutti gli organizzatori della Myanmar Lethwei world Championship, tutto il mio team della Sitjemam Muay thai gym e il gran numero di persone che mi ha supportato con messaggi e post!
Grazie mille anche a MMA Arena e a risentirci a presto.
Miriam Sabot
Da Tokyo
Mirko Zax
